Dovevo trovare un mare e ho perso un mondo

Seri davvero i pattini scivolando sul mare come esche persistenti e in direzioni opposte. Là (ricordo un tempo quasi franto ossia perso in un cassetto che non riesco più ad aprire o a trovare) sulla banchina col braccio sopra le spalle di una bimba dal volto riapparso anni dopo in una foto trovata per caso nel cesto dei ricordi (com’era diversa dall’immagine ospitata dalla memoria, persa nel fioco barlume di uno sfuocato lontano), osservavo stupito una tromba marina, roteante come una trottola antica di latta con piccoli fori laterali  che emettevano fischi legati alla velocità di rotazione, sfaldarsi nei pressi di Punta Righini in un settembre confuso e da dimenticare. Ma vanamente tendevo a certe considerazioni scrivendo già allora insulse poesie intento a perdere i sapori e i profumi del mondo davanti a due possibili varianti e senza saperlo scelsi quella già scritta nel mio codice genetico. Perché ostinarsi a seguire la scia più lontana? Volti che adesso stanno sospesi a mezz’aria davanti al mio sguardo o voci persistenti nella coclea come l’ansia che cresce nella carne e nell’anima alla vista di un dito sopra un elenco di nomi prima dell’interrogazione: volti che non smetteranno mai di passare anche se sono invecchiati come foto non fissate bene e sfuggono alla memoria senza mostrarsi nitidi e certi; voci che non hanno più fonte e ti chiedi se sia l’Organo del Corti a trasferire a caso l’energia elettro-chimica. Non è un ciak, ma è come sentirsi morire e sentirsi gettato distante nell’indaco dei fiotti e dei marosi di quelle trombe.

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